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davide a. milani

Wimbledon 2013: Andy Murray e quei 5 secondi di impareggiabile felicità a Wimbledon.


Wimbledon 2013. Ogni anno a Wimbledon si accende una magia che dura due settimane, tra fine giugno e inizio luglio. 


Di tutti i tornei del circuito questo è innegabilmente quello con più fascino e tradizione. Sarà per quell'erba verde del centrale, che dopo due settimane lascia spazio a terra e polvere lungo le linee di fondo campo. Sarà perché qui si sono giocate partite memorabili e infinite tra campioni straordinari. 

Sarà perché è il sogno di ogni bambino che inizia a giocare a tennis. Sarà perché il pubblico, più che in altri tornei, sembra dentro il campo, a trattenere il fiato ad ogni colpo. Sarà perché il corridoio che dagli spogliatoi porta al centrale è pieno di storia del tennis. Ma quello che ogni volta mi stupisce, più di ogni altro torneo, sono quei 5 secondi dopo l'ultimo punto del torneo. 


Dopo sette partite e migliaia di colpi, chi arriva a vincere quel punto prova una felicità incontrollata e incredula. Ieri ha vinto Andy Murray, dichiarando nell'intervista dopo la partita di non ricordarsi nulla dell'ultimo, infinito game. Un game nel quale si è manifestato quanto il tennis possa essere crudele e mangiarti il cuore prima di farti esplodere di gioia. Un game che può cambiare il destino. Sul parziale di 2-0; 5-4; 40-0, con tre match point a disposizione, il dio del tennis ti mette dentro la testa i fantasmi: hai 3 possibilità di vincere subito, 77 anni dopo Fred Perry, l'ultimo britannico riuscito nell'impresa. 

Dall'altra parte però, il dio del tennis ti ha messo di fronte il peggiore avversario per questi momenti, uno che potrebbe rovinare la festa a un'intera nazione: un serbo sornione e infaticabile che, pur esausto dopo un'epica semifinale e ormai rassegnato, non vuole certo lasciarti vincere al primo match point. E lui, il numero 1 del ranking, soprannominato Djoker, questa volta gioca il ruolo dell'aguzzino e si presta, insieme al dio del tennis, a prolungare il dramma. Annulla uno dopo l'altro i 3 match point e si procura anche 3 palle break. 


Orfano del mio idolo - Federer - e dopo aver sperato nella rimonta del Djoker, mi ritrovo aggrappato al divano, con le mani sudate e il cuore che mi batte nel petto, in una confusione emotiva e sportiva... Non so più che cosa voglio. Forse voglio che si vada sul 5 pari e che si continui con un'epica rimonta. O forse voglio che finisca tutto subito. E sono esattamente queste due opzioni che il dio del tennis mette in testa a Andy Murray. Sembra dirgli "It's your choice kid". Hai sulla racchetta la pallina del sogno o dell'inferno. Puoi uscire subito dall'incubo o rimanerci ancora, sta a te. In questi momenti non c'è più sport, non c'è più tecnica. C'è solo la tua testa in un vortice di emozioni. Ci sono milioni di pensieri e milioni di "se". Quasi non c'è più nemmeno l'avversario. Stai giocando contro il dio del tennis. E il dio del tennis non gioca a tennis con una racchetta, ma con le tue emozioni e usa le tue paure al posto delle palline. Gioca duro. E poi accade, come ogni anno, una magia che dura 5 secondi: l'ultimo punto del torneo, quello della vittoria. Quello che freddamente il giudice di sedia annuncia con "Game, Set, Match, Championships Murray". Quello che il pubblico all'interno dello stadio e sulla Henman Hill accoglie con un boato che ti entra in testa. Sono convinto che sia questo, più che l'annuncio del giudice, a farti capire che l'incubo è finito e che il sogno è realtà. Perché da solo non lo puoi capire, non vedi nemmeno il campo, non sai se la pallina era dentro o fuori. Hai bisogno di un segnale per uscire dalla tua testa e ritornare a vedere la realtà. 

E in quei pochi secondi non sai cosa fare... ti inginocchi, ti butti a terra oppure, come Andy Murray ieri, lanci la racchetta e ti metti le mani in testa. Poi scendi a rete a salutare l'avversario, inizia subito il protocollo della premiazione e tutto torna quasi normale... Ma nella tua testa rivivrai quei 5 secondi di impareggiabile felicità per sempre. 


Così è il tennis e, forse, anche la vita. Grazie Wimbledon.

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