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Alice Volpe: la determinazione è il fondamento del successo personale.

Ho incrociato Alice Volpe su Instagram (@volpealicee), dove pubblica aforismi e distillati della sua filosofia di tennis e di vita. Frequenta l’ultimo anno del liceo scientifico e vuole diventare una tennista professionista. Si allena ad Arcene e per il 2021 vuole giocare il più possibile tornei ITF e entrare in classifica WTA. Da sempre sportiva e ossessionata dalla vittoria, la diciottenne di Urgnano (BG) ci racconta così l’origine della sua passione per il tennis.


Ho iniziato a giocare a tennis per puro caso all’età di 6 anni. Sono sempre stata appassionata di qualsiasi cosa che includesse correre, muoversi, giocare con una palla... Insomma ero una piccola peste che - non sapendo stare ferma - amava e ama tuttora praticare qualsiasi sport. Questo anche grazie a mio padre, anch’egli uno sportivo, che mi ha trasmesso questa passione. Ma il tennis aveva qualcosa di speciale fra tutti quegli sport, perché racchiudeva in sé, allora come oggi, tutte le caratteristiche di quella bambina di 6 anni. Da subito il tennis è stato il “Mio Sport”. È stato un po’ un amore a prima vista, uno sport non come gli altri, ma che appunto era unico e inimitabile.


In che cosa il tennis è unico e inimitabile?

Il tennis è unico e inimitabile per vari aspetti, ma andiamo per gradi: per prima cosa è uno sport individuale, certo, ma molti non sanno quale grande team risieda alle spalle di un atleta di alto livello. Quindi possiamo dire che è strano e a suo modo unico perché, pur giocando da sola contro la mia avversaria, ho la sensazione che il mio team stia sempre giocando al mio fianco contro la persona che è al di là della rete. In secondo luogo, sono rimasta colpita dagli aspetti di squadra che indubbiamente ci sono nel doppio. Non esistono altri sport individuali dove si possa giocare sia singolarmente che in coppia, e questa è una grande peculiarità del tennis. Sinceramente, mi piace molto giocare il doppio, a volte più del singolo. Inimitabile perché è un insieme di tanti aspetti che compongono i principali sport: corsa, resistenza alla fatica, palestra, coordinazione occhio-mano, coordinazione braccio-racchetta e potrei andare avanti ancora... Per tutti questi motivi ho eletto il tennis come mio sport.


Uno sport quindi dove la squadra che collabora con te è fondamentale. Raccontaci un po’ del team che hai scelto per centrare i tuoi obiettivi.

Esatto, come ho anticipato, il bello del tennis è che in campo scendo sola, ma al mio fianco ho un team che è fondamentale per me. Senza di loro, sarei completa a metà, mancherebbe un pezzo di me. Il mio staff è semplice, ma con obiettivi comuni e chiari in testa: il mio coach,Andrea Biffi, con cui ho un bellissimo rapporto quasi da padre-figlia e credo in tutto ciò che mi sta facendo fare. Il mio preparatore atletico,Davide Caccia, con cui allo stesso modo ho un bel rapporto e mi piace molto il modo in cui mi sta facendo lavorare dal punto di vista fisico. Il mio fisioterapista,Claudio Esni, che mi rimette in sesto dopo mesi di preparazione. La mia mental coach,Vanessa Costa, cerca di capirmi sempre e la parte mentale è un aspetto importantissimo nel tennis. Poi c'èAlice Gatti, la mia consulente per gestire al meglio i social media e tutti gli aspetti di comunicazione. A loro voglio aggiungere la squadra di serie B del tennis club città dei Mille (BG) per cui giocherò questa stagione.


AV è già un marchio. Puoi dirci qualcosa di più su questo progetto e sulle tue collaborazioni con i primi sponsor?

È nato tutto per puro caso, ma alla fine i progetti che nascono per caso sono sempre i migliori, o almeno si spera. Ho iniziato a parlare con Alice Gatti di questa mia voglia di avere un logo personale, spiegandole come fin da piccola prendevo matita e gomma e cercavo di intrecciare la A e la V per creare un logosuperbello. Chi non ha mai sognato di avere un proprio logo, mente! Lei mi ha ascoltato prendendo appunti finché il giorno del mio compleanno mi sono trovata davanti agli occhi una sacca, due magliette, due canotte e un pantaloncino, personalizzati proprio con quel logo che da sempre sognavo. Non avevo parole, non ci credevo, ma era vero e AV aveva preso vita! Un grande lavoro da parte di Alice Gatti che ringrazio ancora. 

Abbiamo deciso di renderlo pubblico a metà luglio 2020, che coincide con l’inizio della collaborazione con barcode04, la società di comunicazione di Alice. Dopodiché grazie ad un contatto interno al mio team, ho iniziato a vestire Adidas e successivamente ho firmato il contratto con Tecnifibre per le racchette. Già in essere da più tempo invece è il contratto con Solinco, che mi fornisce corde e anche il borsone personalizzato. Mi auguro che altri sponsor si aggiungeranno presto per accompagnarmi in questa non facile salita.


Qual è il tuo rapporto con la vittoria?

Fin da piccola mi piaceva correre a destra e a manca e nei giochi che la mia insegnante di tennis ci faceva fare, volevo sempre arrivare tra i primi... Beh diciamo la verità, volevo sempre arrivare prima. E guai quando perdevo, tenevo il muso per tutto il giorno... Anche da bambina cercavo di dare il meglio di me, anche nelle partite non importanti o non determinanti. Ho detto “anche da bambina” perché questo, ancora oggi, mi caratterizza in qualsiasi occasione, anche al di fuori del tennis: cerco sempre di dare il 101% e mai il 99%.


Purtroppo però non si può arrivare sempre primi. Pablo Carreno Busta, quando era in Top 10, si è espresso così sulle sconfitte: “Se perdi non preoccuparti, io sono il numero 10 al mondo e perdo quasi ogni settimana”. Ora che non sei più bambina e hai capito che le sconfitte fanno parte di un percorso di crescita, come reagisci quando perdi una partita?

Essere uno sportivo insegna anche a perdere, anzi forse è proprio questo l’insegnamento più importante. È facile sorridere quando si vince e a volte nemmeno si riconoscono i propri errori dopo una vittoria, mentre quando si perde ogni singolo dettaglio viene messo sotto la lente. Più si sale di livello, più risulta importante la reazione a una sconfitta. Vorrei però fare una distinzione: ci sono partite perse di cui sono soddisfatta e invece altre di cui non lo sono affatto. 

Nel primo caso la mia reazione è abbastanza positiva, nella misura in cui cerco di capire gli aspetti su cui devo lavorare e accetto la sconfitta. Perché? Perché so che non sono da sola a giocare, oltre la rete c’è la mia avversaria e quel giorno devo riconoscere che è stata più brava di me. 

Nel secondo caso rimango un po’ amareggiata e forse a volte delusa, perché so di non aver dato il massimo o di non aver ascoltato i consigli del mio team. In questo caso gli errori vengono amplificati, e dopo una sorta di ‘reset’, analizzo con il mio team i problemi di quel match, cosa non è andato. Da entrambe queste tipologie di sconfitte so benissimo che si può imparare tanto, l’aspetto fondamentale è non perdere di vista i propri obiettivi, concentrarsi maggiormente sui propri punti di forza e farsi scivolare addosso qualsiasi commento esterno.


Quando hai iniziato a “prenderci gusto”?

A otto anni la mia insegnante mi inserì nel gruppo dei ragazzi di dodici/tredici anni e questo mi costrinse a maturare in fretta. Giocavamo su una superficie molto veloce e io ero piccolina, esile e a volte mi arrivavano pallate fortissime che neanche vedevo. All’età di 10 anni ho iniziato a fare dei tornei e da quel momento sono riuscita finalmente ad esprimere quella che sono realmente, in ogni partita cercavo di divertirmi, aspetto principale per poter giocare al meglio un match. Inoltre ero conosciuta come “la bimba che corre ovunque, che non molla una palla”, una caratteristica fondamentale che mi contraddistingue anche oggi che non sono più una bimba.


Cosa ti definisce meglio quando si tratta di scendere in campo?

Mi piaceva e mi piace correre su ogni palla, anche senza un piede, anche con un polso mezzo rotto, io non riesco a mollare mai. Questo penso sia uno dei miei pregi migliori, non riesco a pensare alla parola mollare e voglio che sia così per tutte le persone che mi conoscono.


Da quei tornei di provincia ha iniziato quindi a crearsi quella piccola tennista, che man mano ha iniziato a giocare tornei regionali, tornei nazionali come i primi campionati italiani e anche tornei internazionali: ricordo ancora le prime esperienze a livello europeo quando quella bimba piccola, che stava crescendo era un po’ spaventata da quell’ambiente che risultava così strano, quasi da vip, e che ora invece è il mio ambiente, la mia zona di comfort.”


A proposito di comfort, l’estate scorsa hai commentato così la tua partecipazione alla Rome Tennis Academy: “Uscire dalla propria zona di comfort e da quella che chiamiamo “casa” non è mai facile, lo diventa però nel momento in cui riesci a riprovare quelle sensazioni anche in un luogo diverso”. Descrivici la tua esperienza a Roma con Vincenzo Santopadre, l'allenatore di Matteo Berrettini. Qual è l’insegnamento più importante che ti sei portata a casa?

Quando sento parlare di Roma, e quindi della Rome Tennis Academy, non posso che accennare un sorriso. Ho un ricordo impresso nella mente e nel corpo così speciale che ancora riesco a sentire il battito accelerato di quella mattina di settembre, quando sono scesa in campo con Santopadre. Mi sono sentita a casa, anche a 600 km di distanza, perché mi hanno accolta come una dei loro, senza far distinzioni e con tanta voglia di insegnarmi cose nuove. All’inizio ero un po’ tesa - allenarsi con la supervisione dell’allenatore di Berrettini non è una cosa che capita tutti i giorni - ma fin da subito Vincenzo ha cercato di tranquillizzarmi, facendomi ragionare attraverso le sue domande e il dialogo che ritengo un aspetto molto importante nel rapporto tra atleta e coach. 

Ha poi cercato di mettermi in difficoltà individuando i miei punti deboli e chiedendomi di spingermi oltre, di provare qualcosa di diverso come ad esempio effettuare un servizio ad occhi chiusi. 

Una figura così importante come Santopadre è riuscita a dar valore ad ogni attimo di quell’allenamento, il che mi ha fatto riflettere su come una persona di fama mondiale - tennisticamente parlando - può avere un cuore immenso. 

Bisogna sapersi guardare dentro e imparare a spingersi oltre. Questi sono gli insegnamenti che mi sono portata a casa, insieme alla convinzione che determinazione e tenacia sono alla base della mia persona, come dice Santopadre.


In uno dei tuoi post su Instagram hai scritto “Chissà se un giorno potrò giocare in uno degli stadi di un grande Slam… Questo accadrà solamente se inseguirò il mio sogno attimo dopo attimo. La cosa fondamentale è solo questa: bisogna sognare in grande, altrimenti tanto vale farlo.” Ma sognare non basta e tu lo sai, perché sai che la determinazione è il vero ingrediente del successo. Come si traduce questo nei tuoi allenamenti quotidiani?

Prima di tutto è fondamentale sognare in grande, perché ti porta a spingerti sempre più in alto, ma non è condizione sufficiente per diventare forte. L’aspetto più importante - e che forse mi caratterizza maggiormente - è la determinazione. Sono d’accordissimo sul fatto che sia il vero ingrediente del successo, infatti per raggiungere una meta bisogna essere determinati nel realizzare quello che si pensa.

Questa determinazione nei miei allenamenti si traduce sicuramente nella costanza e nella resistenza alla fatica. Più semplicemente, da lunedì a venerdì, devo essere sempre concentrata allo stesso modo, o almeno provarci. Devo scaldarmi in anticipo prima dell’allenamento. Devo cercare di non sprecare nemmeno un attimo di quelle tre ore di tennis. Devo lavorare con obiettivi ben chiari in testa, in previsione di un match o semplicemente per la preparazione personale. Questo significa tanti sacrifici e tanto lavoro e per farlo la determinazione è alla base di tutto, ti dà quella spinta in più che ti serve, perché ti fa rimanere concentrata sul tuo obiettivo.


Il nostro augurio, Alice, è che la tua determinazione ti porti ad avere successo nel tennis e nella vita. In bocca al lupo!


Alice Marble

Nella storia del tennis c’è stata un’illustre e determinata omonima: Alice Marble, vincitrice di cinque titoli slam in singolo fra il 1936 e il 1940, oltre ad altri 13 in doppio. Numero 1 assoluta di quel periodo, indossava pantaloncini per giocare e fu una spia durante la Seconda Guerra Mondiale, ma viene ricordata soprattutto perché si batté per l’integrazione razziale nel tennis e fece pressioni nei confronti della USTLA per accettare l’iscrizione agli US Open del 1950 di Althea Gibson, la prima persona di colore a giocare un torneo Slam. 

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