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  • davide a. milani

Il maggiore Wingfield e tutto quello che ci manca davvero del gioco più bello del mondo.

Quando le ancelle e lei stessa si furono saziate di cibo,  gettati via i veli dal capo giocarono a palla.

Iniziò il gioco Nausicaa, dalle candide braccia.


(Hom., Od., VI, 95-100)


Copertina del libro di Wingfield

Il Maggiore Walter Clopton Wingfield (1833-1912), che riposa oggi al Kensal Green Cemetery di Londra (ispirato al parigino Père-Lachaise), non si definì come l'inventore del gioco, ma fu colui che per primo ebbe l'intuizione di renderlo portatile e di diffonderne l'adozione, brevettando una versione "in scatola" acquistabile al costo di lancio di 5 guinee.


The game of Sphairistike or Lawn Tennis, pubblicato dal 1874 in 5 edizioni, era il libretto di istruzioni che accompagnava il kit contenente la rete, i paletti, le mazze (bats, il termine racchetta fu introdotto dopo), palline, un martello e il pennello per tracciare le righe.


Era il 1874, l'aristocrazia britannica (e non solo) aveva il suo nuovo gioco da esterno che presto avrebbe soppiantato il croquet nella scala delle preferenze. Iniziava l'era di quello che per milioni di persone nel mondo è oggi una passione unica. E se avrete voglia e pazienza di continuare a leggere, provo a spiegarvi perché.


A partire da fine febbraio 2020 le restrizioni decretate dal Governo per contenere la diffusione del virus Covid-19 hanno progressivamente ridotto e alla fine impedito le attività sportive. Niente tennis, a nessun livello, per chissà quanto tempo. Questo ha gettato tutti i tennisti in una condizione cronica di una sindrome che già conoscevano bene: la voglia di giocare ancora, appena finito di giocare. Un craving sportivo, che condanna i tennisti a voler giocare continuamente (incomprensibile per mogli, fidanzate, amici non tennisti) per migliorarsi, per dimostrare a se stessi che possono fare meglio. Per tirare un altro rovescio lungolinea proprio là, dove l'avversario non arriverà mai in tempo. Per provare a fare qualcosa di diverso in campo. E allora tutti in questo mese si sono inventati il tennis a casa. C'è chi gioca contro il muro, chi gioca a air-tennis, chi si allena sugli spostamenti. Palliativi mutilati dei fattori fondamentali che rendono il tennis un'esperienza totale: il campo e l'avversario. Senza di essi siamo costretti a una regressione che ci confina a fare esercizi sterili.


Nell'introduzione alle regole, Wingfield definì il gioco di facile apprendimento anche per i principianti ("The merest tyro can learn it in five minutes..."). Una frase che risulta piuttosto beffarda. Il tennis, in realtà, è inafferrabile. Ti segue come un'ombra senza mai manifestarsi pienamente. Nell'arco della stessa partita, se non addirittura dello stesso game, ti illude di averlo afferrato per poi ributtarti nel baratro dell'incertezza. Ed è proprio questo che ci manca. La sua sfuggevolezza che con testarda insistenza cerchiamo di dileguare a ogni punto convinti che sarà quello giusto per mettere insieme tutto: la leggerezza nello spostarsi sul campo, la velocità di esecuzione, l'impatto perfetto della racchetta che emette quel suono tondo e pieno ad accompagnare il braccio e la fase di espirazione mentre la palla viaggia verso il punto indicato dalla tattica studiata dalla nostra mente in quella frazione di secondo. In una partita non accade spesso (nemmeno ai migliori, credetemi) ma quando accade abbiamo l'impressione di aver colto l'essenza del tennis. Dura un attimo, ma c'è dentro tutto. Ecco, è questo che ci manca adesso del gioco, forse, più bello del mondo.



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